"Fare arte non equivale a sfornare ciambelle" - Intervista di Marcello Marchesini a Leonardo Rinaldi (VVVB) su TEMPO

Pare che noi si abbia il privilegio di vivere in una strana epoca. Tempi nei quali: “… come al razzo s’arrivò dalla macchina a vapore, oggi mutò la bestia in cacciatore”. Si tratta niente meno del Coniglio sparatore, curioso personaggio che, probabilmente vittima di qualche esperimento di manipolazione genetica e stanco di essere la materia prima degli allevamenti intensivi, ha deciso di darsi alla caccia. “Tanto men radice o tubero m’assilla da quando fui padron di tecnica e di fuoco” spiega il nuovo quadrupede, risultato della zoologia postmoderna. Vi sembra mostruoso? E cos’è diventato allora l’uomo da quando, uscito dalle caverne, ha creato ordigni nucleari, armi batteriologiche e ogni altro genere di strumenti di sterminio per il solo gusto di saperli inventare? Il poco raccomandabile coniglio è uno dei tanti esseri nati dalla matita del ventisettenne artista carpigiano - ora residente nella campagna bolognese in una casa ‘atelier’ insieme ad altri colleghi - Leonardo Rinaldi, e confluiti in Bestiario. La struttura ibrida dell’invisibile, un’opera in divenire in cui, insieme alle immagini di Rinaldi, scorrono le glosse di Nicola Menga, artista con il quale il nostro ha intrapreso questo sodalizio creativo. E la sensazione, osservando le strane, ibride creature del Bestiario, è certamente quella di trovarsi di fronte a uno specchio deformante del nostro presente, strumento che tende a restituirci un’immagine della modernità ‘più vera del vero’. Il summenzionato Sparatore, per esempio, avendo dovuto rinunciare agli istinti e ai vantaggi che la sua condizione animale gli consentiva per ripiegare su una più sicura doppietta, si avvale, per le sue battute di caccia, di un Nano da punta. “Assunto tal percorso d’avanguardia il ferin senso m’abbandona mano a mano, e per stanar gustose belve, dunque, m’ausilio non di levrier, né bracco, ma di nano”. Se gli animali, in questa summa degli orrori della modernità, si trovano promossi al ruolo di vertice della catena alimentare, spetta agli uomini, resi ormai imbelli dalla Tecnica, quello tanto vituperato di serventi. Senza tuttavia sortire grandi risultati. Infatti: “Non tardo si rivela futile l’acquisto dell’umano puntator torpido e fiacco di leve corte a guisa d’inseguir manicaretti, immobili pietanze e cose morte. E quando fiuta cosa viva, meraviglia! Ma poi speranza vana e più maggior fastidio, punta una nana”. Come è nata l’idea di creare questo discendente dei Bestiari medievali che pare la fotografia del mondo, insieme allucinante e ironico, prospettato uscito dalla mente distorta del Dr. Stranamore? “Nicola Menga, uno dei miei più stretti collaboratori, discuteva spesso e mi interrogava sui disegni e i taccuini che riempivo di immagini. Prima di un suo ritorno a Reggio Calabria gli ho lasciato questo bestiario con un centinaio di fiere e lui ha cominciato a restituire frammenti scritti di quell’immaginario. In ogni caso si tratta di un progetto in divenire, con più pelli e piani di lettura, che spero anzi si espanderà”. Leonardo è parte di VVVB, un collettivo variabile di artisti nato nel 2010 e dopo aver frequentato l’Istituto d’arte Venturi di Modena è approdato all’Accademia d’arte di Bologna. Ma come è nata la tua passione per il fare arte, che ti ha portato, negli anni, a creare dipinti, sculture e installazioni? “Il mio approccio con uno spazio ‘bianco’ da sconvolgere è iniziato nell’infanzia con il disegno e, da allora, si è consapevolizzato, ma in principio era pura necessità, la smania di vedere che cosa succedeva nel concretizzare un’idea. Diciamo che è il miglior medium per la mia curiosità”. Leonardo ha un’idea molto chiara in merito a cosa si debba intendere per arte, e bisogna ammettere che si resta stupiti della consapevolezza che esprime nonostante la sua giovane età. “L’arte è il lascito ai posteri, un testimone che indaga e sovverte i determinismi di ogni contesto storico, una necessità sociale. E, come ogni forma di ricerca, è legata alla morte e alla comunicazione”. E cosa pensi dell’arte contemporanea, da molti giudicata incomprensibile? “L’arte contemporanea, come quella antica, richiede nella propria fruizione un intento, perciò fidatevi dei vostri occhi e non cercate i sottotitoli. D’altra parte, se vi aspettate una facilità di lettura allora lasciate perdere. Per esempio Il paradiso di Dante è un capolavoro, ma per essere fruito richiede tempo, e non i 45 secondi di jingle pubblicitario”. Qual è la creazione della quale sei più orgoglioso? “Sono un pessimo padre. Quando un lavoro mi dice che è finito, è giusto che vada per la sua strada, che sia un camino, una discarica, una casa o una galleria. Amo e litigo mentre il lavoro deve finire, ma una volta fatto me ne distacco e, sinceramente, a volte, non me ne importa più nulla”. E come sai che un’opera è terminata? “Quando mi dice: ‘Funziono’. C’è però da dire che quasi mai diventa ciò che mi ero immaginato. Nel nascere, un’opera vive di imprevisti, succedono cose anche minime che aprono porte immense per altri lavori. Se invece ottieni ciò che ti eri prefisso, senza problemi e nella facilità, quella smania allo stomaco sparisce e diventa tutto. Fare arte non equivale a sfornare ciambelle”. Marcello Marchesini

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